RÊVERIE NEL GRUPPO

Articolo di ASPIC FVG, curato dalla Dott.ssa Rosanna Cavalieri

L’uomo, per evolversi, si è organizzato in gruppi: durante la preistoria l’individuo dipende dal proprio gruppo che gli garantisce la sopravvivenza fisica e lo sviluppo psichico grazie ai rituali.

Quindi, potremmo dire che questa forma di aggregazione è parte del nostro patrimonio, è una spinta innata. Ma per essere tale è necessario che soddisfi determinati bisogni. E così è. Autostima, status, sicurezza, raggiungimento di obiettivi, affiliazione, appartenenza. Grazie a questa partecipazione si esce dalla propria comfort zone, si condivide, si apprende, si ampliano i propri spazi e, nel contempo, si ammettono nuove persone alle proprie sfere personali.

Il gruppo è tutto questo e molto di più. Ha una sua indipendenza rispetto agli individui che lo compongono e, allo stesso tempo, ne è dipendente.

Ma non solo. Il gruppo, in quanto entità unica, opera sull’individuo che ne fa parte, anche attraverso la rêverie.

Di cosa si tratta?

Wilfred Bion[1], psicoanalista inglese, ha concettualizzato la rêverie come quel momento in cui la madre si abbandona al contatto, accoglie, consola il proprio bambino.

Il neonato ha delle afferenze sensoriali a cui non riesce dare un nome e non riesce a rendere “pensabili”: prima avviene l’esperienza sensoriale e poi il pensiero.

Questo rende il suo mondo pauroso e angosciante ed è qui che interviene la madre.

Durante la rêverie, lei accoglie questi elementi grezzi (elementi Beta), tra i quali angoscia e terrore, li elabora e li trasforma (elementi Alpha), restituendoglieli moderati dal pensiero e dall’affetto. E’ un po’ come se “predigerisse” (funzione Alpha della madre) l’esperienza sensoriale del neonato e la restituisse pronta per essere pensata o sognata.

Poi, durante l’infanzia, si entra nel mondo delle fiabe: il momento in cui il caregiver racconta al bambino, quel momento intimo e di condivisione è circonfuso di un’atmosfera magica e circoscritta alla coppia, è una sospensione dalla realtà che potrebbe ricondurre alla rêverie.
E’ però una rêverie per così dire più “matura” in cui non più l’esperienza sensoriale bensì quella emotiva può essere elaborata e restituita al bambino al fine della sua comprensione e integrazione in un sistema complesso e dotato di maggiori sfumature.

D’altro canto tutta la nostra esistenza è una continua narrazione.

Attraverso la funzione Gamma[2], il gruppo esegue delle operazioni trasformative analoghe.

La situazione gruppale promuove la rêverie in cui lo stato mentale che si sperimenta si potrebbe descrivere come una sensazione di benessere, di una qual felicità, forse simile a quello che si può provare quando si è tenuti in braccio dalla mamma nei primi tempi della vita, o quello di tenere in braccio il proprio figlio, o di certe esperienze di gruppo fatte da piccoli nelle scuole materne quando ci si affida a qualcuno e si vive una dimensione di tranquilla sicurezza.

Durante questo momento, si esplica la funzione Gamma che potremmo definire come la capacità metabolica del gruppo attraverso cui si disintossica la mente dell’individuo da tensioni, paure, insicurezze[3].

Inoltre, questa funzione tipicamente gruppale agisce anche sulla sua omologa nel soggetto: in parole povere, permette alla funzione trasformativa dell’individuo di uscirne rafforzata e modificata, in modo da rendere maggiormente “pensabili” emozioni e sensazioni personali.

Inoltre, ripensando alla narrazione, durante gli incontri, i partecipanti portano i propri vissuti e partecipano ai vissuti altrui: questo permette un arricchimento delle proprie concezioni, una nuova pensabilità che può integrare o modificare il vissuto stesso.

E’ un po’ come quando si racconta a qualcuno un evento accaduto e, dopo averne parlato, ci si dice “Però, non l’avevo visto in questo modo”, integrando nuovi pensieri e rivalutando la cornice.

Queste e altre valenze porta con sé il gruppo, entità per certi versi fondamentale nella vita dell’essere umano.

Quindi, quando ci si pone la domanda “Ma perché partecipare a un gruppo?” può essere utile ricordare che siamo esseri sociali e necessitiamo del contatto e del confronto: questo può far sorgere nuove domande, che permettono, attraverso la ricerca delle risposte, un’apertura all’altro da noi.


[1] Bion, W., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, tr. it., Roma, Armando, 1970.

[2] Corrao, F., Struttura poliadica e funzione gamma. Orme, vol. II. Milano, Raffaello Cortina, 1998.

[3] Neri C., Gruppo, Roma, Raffaello Cortina, 2017.